Vijay Iyer: note di programma – Concerto 19 gennaio 2020

Vijay Iyer è un artista emblematico per molti versi, non ultimo quello di rappresentare un anello di congiunzione fra la tradizione culturale poli-etnica americana e una peculiare area migratoria, proveniente dall’India e dall’Asia meridionale, insediatasi negli Stati Uniti a partire dalla fine dell’Ottocento per consolidarsi intorno agli anni Quaranta del Novecento.

Iyer è nato da genitori indiani trasferitisi negli Stati Uniti verso gli anni Cinquanta e, per quanto egli sia culturalmente del tutto integrato nell’ordito culturale statunitense, la cultura dei suoi avi è fortemente presente nella sua opera musicale, non solo nell’ambito improvvisativo (basti ricordare le sue collaborazioni con un artista della tradizione carnatica come Rudreesh Mahanthappa e le composizioni raccolte in un’incisione come “Tirtha”) ma anche nella sua ormai estesa produzione accademica. Pagine come, “Conjectures” (2000), “RADHE RADHE: Rites of Holi” (2013) o “Playlist for an Extreme Occasion” (2011) sono esempio illuminante di una capacità inventiva nel delineare incroci fra materiali derivanti da tradizioni fortemente diverse.

Tale tratto, non disgiunto da un intenso interesse per le più diverse manifestazioni della spiritualità (che egli sa cogliere con mirabile sintesi nelle sue esplorazioni del contesto popolare africano-americano, anche in ambiti peculiari come nel caso di “Release”, collaborazione con Bill Morrison creata per l’Eastern State Penitentiary), è ben presente in una molteplicità di collaborazioni con artisti quali Wadada Leo Smith, Mike Ladd, Karole Armitage, Steve Coleman, Steve Lehman, Tyshawn Sorey, Brooklyn Rider, Silk Road Ensemble, Brentano String Quartet, JACK Quartet, Cornelius Dufallo, Ethel String Quartet e in lavori come “Three Episodes for Wind Quintet” (2000) “Mutations I-IX” per quartetto d’archi (2005), “Bethroted” (2007), “Interventions” per orchestra da camera (2007), “Playlist 1 (Resonance)” (2010), “Mozart Effects” (2011), “Dig the Say” per quartetto d’archi (2012), “Bruits” per pianoforte e quartetto d’archi (2014), “Time, Place, Actions” per quartetto d’archi (2014).

Se la musica improvvisata di Iyer, difficilmente giudicabile secondo i parametri occidentali (sia accademici che improvvisativi), si fa notare per le intricate ma propulsive sottigliezze ritmiche e per una capacità coloristica che arabesca elaborazioni di notevole grazia melodica (ma che pure non vantano le tradizionali doti che la cultura occidentale esige, soprattutto in un pianista, come il tocco, la personalità fonica, la tecnica virtuosistica), sia nell’improvvisatore che nel compositore (ormai assurto ai vertici delle più importanti ed esclusive istituzioni culturali americane) emerge un imperativo morale, la volontà etica e non solo estetica di portare alla conoscenza del più elitario pubblico americano la ricchezza della marginalità. Tratto che emerge chiaro anche in un lavoro come “Open City”, scritto per la Montclair State University e ricavato da un romanzo dello scrittore nigeriano-americano Teju Cole.

Tutti i crocevia culturali, interetnici e più specificamente musicali frequentati, visitati ed esplorati da Iyer vi convergono, in un sovrapporsi di linguaggi scritti e improvvisati che costituisce – grazie ai contributi di musicisti come i trombettisti Ambrose Akinmusire e Jonathan Finlayson, la violoncellista Okkyung Lee, il violista Matt Maneri, il contraltista Steve Coleman, il tenorista Hafez Modirzadeh, la flautista Elena Pinderhughes, il rapper Himanshu Suri gruppo hip hop Das Racist, lo stesso Teju Cole come voce recitante – un ritratto comunitario ed empatico, ricco ma aspro, complesso e mosso da riff e dallo sbocciare di materiali vernacolari, della policulturalità e della polietnicità americane meno abbienti, meno integrate, più sfruttate e abusate, un’eco delle voci dell’America più “outcast”.

Appartenente a un gruppo etnico definito negli Stati Uniti di “colore” ma senza essere africano-americano, Iyer ha sempre dimostrato un profondo rispetto per la tradizione musicale africano-americana, non esitando a evidenziarne la supremazia idiomatica rispetto alle trasformazioni a essa imposte dai musicisti bianchi americani, soprattutto in ambito improvvisativo. Come docente ad Harvard e come direttore artistico di manifestazioni in larga parte accademiche egli ha dedicato cospicua parte delle sue programmazioni a artisti come George Lewis, Roscoe Mitchell, Muhal Richard Abrams, Nicole Mitchell, Jen Shyu, Claire Chase, Tyshawn Sorey, nello sforzo di allargare nel pubblico la percezione di una realtà culturale esuberante, ricca quanto spesso sofferente, trascurata e osteggiata  perché richiama un’America di cui non tutti vogliono ammettere l’esistenza, che non tutti – soprattutto – vogliono vedere. Artista di sintesi, postosi ai confini vicini e lontani fra due universi intricati e contraddittori come quello indiano e quello statunitense, Iyer avverte in modo sensibile la complessità delle relazioni inter-etniche e le dinamiche culturali e umane che ne derivano: la sua arte musicale, infatti, priva della nostalgica dimensione di uno scrittore come Amitav Gosh, pare incline piuttosto a una dimensione pittorica e oscilla fra la materica adesione alla realtà di un pittore come Paritosh Sen e la meticolosa astrazione di Natvar Bhavsar.

Non è comune vedere e ascoltare Iyer al pianoforte in solitudine, in una situazione in cui è naturale mettersi a nudo. Uomo schivo, artista estremamente sobrio, Iyer affronta con una certa timidezza un’esperienza che espone in trasparenza anche la sua arte percussiva, piena di inaspettati guizzi e di improvvise torsioni armoniche, fatta di un fraseggiare spesso nervoso, rapsodico, errabondo ma pronto a sciogliersi in improvvise macchie di colore, in oasi di slargate risonanze, in un lirismo che non cerca il consenso nel suo pensoso pudore ma sembra costituire un atto meditativo, raccolto, come una serie di annotazioni tratteggiate fra sé e sé.

Arte elegante e composta, frutto di una concentrazione feroce esibita con nonchalance apparentemente distratta, fatta di tracce lasciate alle proprie spalle per ritrovare un cammino logico di echi, ricordi e memorie in cui ancora più chiari si fanno quei crocevia inter-culturali che Iyer ama così tanto frequentare e che lo spingono, con un approccio che ricorda l’arte non meno guardinga ma appassionata di Andrew Hill, a percorrere anche i cammini del song popolare africano-americano: un’esplorazione fatta talvolta di intense e veloci miniature, talvolta di prolungate esplorazioni che minuziosamente compongono e scompongono ben note composizioni per trarne qualcosa di inusitatamente ipnotico.

Vi emerge la fascinazione che Iyer prova per il ritmo, per la sua complessa destrutturazione, per la sua matematica fisica e mentale, e ancora più chiaro si fa il tentativo di connettere attraverso di esso, nella pulsazione del battito cardiaco, nella scansione del respiro, gli elementi umani e poetici di più culture diverse. Nel suo rapporto solitario con lo strumento, l’arte di Iyer come compositore e interprete si staglia in un trasparente lirismo cui l’impulso ritmico conferisce un’inaspettata fisicità, un tratto danzante, un “groove” sorprendente (ma Iyer conosce assai bene l’arte del “funk”, non a caso uno dei suoi lavori accademici, “Dig the Say”, è dedicato a James Brown), l’ipnosi del “loop”.

Ancora una volta si rivelano il rigore poetico, l’austerità e la precisione del linguaggio ma anche la curiosità per il vernacolo, per la diversità di accenti, di voci, di timbri: la musica risuona di una coralità che offre la propria voce all’empatia che il compositore nutre per la diversità, per la marginalità, per l’umanità.

Gianni Morelenbaum Gualberto

NOTE BIOGRAFICHE

Newyorkese di origini tamil, classe 1971, Vijay Iyer è uno dei pianisti che stanno definendo più chiaramente i contorni del piano jazz contemporaneo.

La sua estesa discografia dimostra l’ampiezza dei suoi interessi musicali e la vitalità del suo stile esecutivo. Nelle sue prime prove da leader spiccavano le presenze di altri giovani destinati poi a salire all’onore delle cronache jazzistiche internazionali (Rudresh Mahanthappa, Steve Lehman, Mike Ladd), mentre nella più recente incisione (The Transitory Poems, 2018) lo si sente duettare con Craig Taborn, in un sensazionale incontro tra i tastieristi più rappresentativi della loro generazione.

Approdato all’etichetta ECM (dopo significative pubblicazioni per Pi, Savoy Jazz e ACT), Iyer, che per l’ECM ha anche realizzato una superba e poetica collaborazione con il leggendario trombettista e compositore Wadada Leo Smith (“A Cosmic Rhythm With Each Stroke”) non si limita all’attività pianistica. Significative sono le sue composizioni pensate per altri gruppi (e anche per formazioni sinfoniche accademiche), come il celebre quartetto d’archi JACK Quartet, e le attività didattiche (insegna presso il Dipartimento di Musica dell’Università di Harvard).

Non sorprendono perciò i riconoscimenti attribuitigli da una pubblicazione come DownBeat: pianista dell’anno (2014) e artista dell’anno (2015). E non meraviglia che l’arte di Iyer sia stata premiata con l’ambita e prestigiosa MacArthur Fellowship, di regola attribuita a personalità creative considerate “geni”.

pubblicato in: Notizie | etichettato: , , .